(djedj/Pixabay) ALBERTO PICCINNI – Con la loro proverbiale wallah(ra) (1), abituati a ridere per scongiurare le disgrazie, nelle prime ore della domenica, i libanesi, sembrano sottovalutare la situazione di eccezionale tensione sulla Blu Line considerandola solo una reciproca dimostrazione di forza a fronte delle notizie che arrivano da Gaza.
Dopotutto, le cosiddette “scaramucce” tra le forze israeliane e le milizie di Hezbollah sono molto comuni lungo la frastagliata frontiera, specie nell’area della Shabaa farm una striscia di territorio abitata da libanesi ma collocata subito oltre il confine siriano, di cui Israele si è impossessato con la forza durante l’occupazione delle alture del Golan nel 1967.
Ma, passata qualche ora, benché qualcuno avesse ancora voglia di scherzare filmandosi mentre ironicamente offre un sikh (spiedino) ai soldati israeliani al confine, l’atmosfera era molto cambiata. Le cannonate di lunedì pomeriggio avevano fatto tremare finestre e pavimenti per un’ora in tutto il distretto e sono bastate per risvegliare il ricordo, ancora fresco, della guerra del 2006. Tiro, la splendida città, patrimonio dell’Unesco, è semideserta. Una inconsueta calma inquieta le strade. Nessun bailamme di narghìle, zucchero filato, gelati, pannocchie e auto sportive con lo stereo a palla. C’è il solito gruppetto di scugnizzi con lo scooter che approfitta del lungomare vuoto per sfidarsi nelle impennate.
Nel paese del rumore, è stato quel silenzio a farmi capire che era scattato qualcosa. Il giorno dopo le scuole e le principali attività rimarranno chiuse. I nostri amici dell’unità di crisi insieme ai comuni, ai volontari e alle forze UNIFIL si coordinano per evacuare i villaggi vicini al confine. Le famiglie vengono sistemate alla bene e meglio nelle scuole e nelle strutture pubbliche della città. Da subito si attiva la macchina degli aiuti. Hanno bisogno di acqua, cibo, latte, materassi, coperte… e ne avranno bisogno quotidianamente finché la tensione non sarà rientrata.
Dopo l’allerta che mi arriva dell’ambasciata, per ragioni di sicurezza, nella giornata di mercoledì, ho dovuto lasciare Tiro per ripiegare a Beirut, evidentemente ritenuta meno pericolosa. Effettivamente nella capitale, la situazione sembra più distesa, almeno all’apparenza. Anche qui, per strada, non c’è molto traffico e, la sera, alla jam session degli amici, eravamo in quattro gatti. Una fonte molto attendibile del canale diplomatico ci comunica di stare in guardia: “In caso di escalation l’aeroporto è la zona più sensibile”. Beh! … non è difficile immaginarlo! Quello di Beirut è un aeroporto “caldo” fin dall’alba dei tempi di un conflitto giocato dalle parti a suon di attacchi e rappresaglie. Lo sanno bene i libanesi che hanno vissuto in un continuo botta e risposta in cui, a un attentato, corrispondeva un’operazione punitiva in un tragico susseguirsi di violenze. A quanto pare, lo sanno anche i tedeschi e gli svizzeri che hanno cancellato i loro voli sulla capitale libanese. E i canadesi che hanno invitato i propri connazionali a lasciare al più presto il paese. Anche i più giovani hanno ancora vivo il ricordo del 2006, quando il primo attacco delle forze israeliane è stato il bombardamento dell’aeroporto per impedire che Hezbollah potesse utilizzarlo per le armi e i rifornimenti. Nel dicembre del 1968, Israele, a sorpresa, attaccò e distrusse una quindicina di velivoli civili in risposta all’attentato dell’OLP al volo El Al 253. Esattamente 40 anni fa, l’hub aeroportuale è stata anche luogo dell’attentato alle forze multinazionali di peacekeeping del 1983, pochi mesi dopo l’attacco all’ambasciata americana. Nell’episodio furono uccise 346 vittime di cui 241 militari americani.
Negli anni Ottanta, le vicende della guerra civile e dell’invasione israeliana si incasellavano nel più ampio contesto della guerra fredda e del conflitto tra l’Iraq di Saddam, all’epoca fido alleato di Washington, contro il nemico giurato di sempre: l’Iran.
I gruppi etnico-religiosi che compongono il mosaico libanese intercettano interessi diversi che fanno in modo che il paese sia particolarmente sensibile a quanto accade in tutta nell’area, cartina al tornasole dei giochi internazionali di potere. Oggi, oltre all’ulteriore instabilità dell’area, l’apertura di un eventuale conflitto aperto sul fronte libanese potrebbe scatenare un effetto domino che non solo coinvolgerebbe la repubblica iraniana ma trasformerebbe una serie di conflitti regionali in una paventata nuova grande guerra mondiale. Lo zio Sam è venuto a proteggere il suo nipotino con due portaerei e circa 2000 soldati che, per adesso, fanno da sentinella a largo di Gaza ma si teme che possano essere orientati verso altri obiettivi. Per gli Stati Uniti gli interessi geopolitici sono enormi: Suez, le rotte del gas e del petrolio e poi bisogna evitare che i paesi del Medio Oriente vengano attratti nell’orbita dei BRICS o abbiano la tentazione di abbandonare il dollaro. Se si guarda la mappa, la direttiva che va dall’Ucraina fino al Medio Oriente rappresenta ormai quasi un fronte unico considerando l’ulteriore stretta azera contro gli armeni.
Chiacchierando con colleghi e amici del posto, emerge che tutti trovano incredibile il modo e la velocità in cui l’opinione pubblica occidentale si sia schierata nei confronti di una parte e non a favore della mediazione e della de-escalation. La propaganda è stata massiccia. Allora come oggi, vere o false, le presunte atrocità del nemico vengono strumentalizzate per giustificare la rappresaglia. Le notizie false, segmentate o prive di contesto, sono deliberatamente orientate a suscitare sdegno e fanno in modo che la preoccupazione di parenti e amici dall’Italia per la nostra sicurezza spesso sia esagerata. Mentre in Italia, quindi, tutti i giornali pubblicavano le finte notizie dei bambini trucidati dai palestinesi, io cercavo nei miei libri, l’immagine del Kaiser che nel’14 era disegnato mentre tagliava piedi e mani alle donne e ai bambini del Belgio, per mostrarla ai miei genitori e spiegar loro come funziona la propaganda di guerra, la cosiddetta Psyop (2).
L’impossibilità di lavorare a Tiro, al momento mi costringe a lasciare il paese. Mi dirigo verso l’aeroporto “caldo” con la mia auto. È appena mezzanotte e per strada non c’è anima viva. Accanto a me il tassista, che riporterà la mia macchina al parcheggio. Cerco di parlargli del al-Aqsa Flood di Gaza ma l’incomprensione è tale che lui mi mostra le foto di un’altra inondazione: quella che ha colpito Beirut la sera prima, causando allagamenti e un crollo.
Mentre Sleepy Joe prepara il suo viaggio in Terra Santa e nelle stanze del potere di Beirut si incontrano i leader sciiti del Libano e dell’Iran, la gente comune cerca di distrarsi senza riuscirci, nasconde le sue ansie dietro una timida e malcelata normalità. Assiste inerme al genocidio in corso a Gaza. I blocchi per le manifestazioni di solidarietà sono quotidiani. Tra campi profughi formali e informali nel Paese si registrano mezzo milione di Palestinesi. L’equilibrio è sempre precario. Come è stato nella guerra civile, certe cose possono accadere in poche ore e poi non c’è più freno alla spirale di attacchi e rappresaglie.
Le paure, specie quelle di guerra, non sono facili da cancellare. Ci auguriamo che tutti questi timori restino tali e non si concretizzino mai in una catena di eventi incontrollabili. Inshallah.
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