Hitchcock preferiva le bionde

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di FRANCESCO GRECO – Grace Kelly, Tippi Hedren, Julie Andrews, e ancora Doris Day, Joan Fontaine, Shirley Mclaine, Vera Miles, Kim Novak… Non necessariamente in ordine di apparizione, ma tutte muse eteree, rese immortali, eterne, senza tempo.

   A Hitchcock piacevano le attrici bionde e quando ne prese una mora, Karin Dor, tedesca, si giustificò: “She is blonde inside” (bionda dentro). Le vestiva tutte la costumista Edith Head.

   Forse bisognerebbe frugare nella sua infanzia (“Tutto è cominciato con Mary Pickford…”) per tentare di spiegarne il perché, o forse entrare nei suoi film (“immagini mentali” li definì Gilles Deleuze), chissà, per capire quella che si può definire un’ossessione, cristallizzata in un archetipo che in prefazione Paolo Mereghetti definisce “canone femminile”.

   Un analista magari potrebbe dirci se il regista inglese (Londra, 1899-1980) al fondo le odiava perché ne aveva paura, se la sua misoginia ha a che fare con la formazione culturale cattolica (studiò dai gesuiti). Eppure ebbe un matrimonio felice con Alma Reville (53 anni d’amore e altrettanti film), ma non sappiamo se era mora o bionda.

   Le vedeva come angeli, ma anche puttane (“una seccatura”), e lo disse già all’inizio, una sorta di mainstream: “Nulla mi piace di più che estirpare la signorilità dalle attrici”. Infatti nei suoi film giocava sul contrasto fra l’apparenza algida, quasi androgina e il ghiaccio bollente che correva carsico, alle geometrie degli ambienti e se vogliamo anche della sceneggiatura, fa da contrappunto il fuoco tenuto quieto, l’eros in uno sguardo che indugia, lo zoom sul pallore di un braccio. Nella sua visione, le anglosassoni possedevano quel fascino ambiguo e devastante più delle mediterranee.

   Ma non aveva un’opinione politically correct degli attori in genere (“bestiame”).

   A indagare un immaginario tanto ricco, sfaccettato, prismatico, si direbbe barocco (Shakespeare sovrapposto a Carmelo Bene Yeats a Bodini), il critico tedesco Thilo Wydra (Wiesbaden, 1968) in “Le bionde di Hitchcock” (L’invenzione di un’icona), Jaca Book, Milano 2019, pp. 232, euro 50,00, con la traduzione dal tedesco di Giovanni Giri.

   Wydra premette che “le bionde hitchcokiane hanno sempre un che di ultraterreno… Sono sempre amanti e amate… donne da adorare, donne forti, donne ostinate…” e poi fruga con delicatezza nei 19 film (“Sogni a occhi aperti. Sogni spaventosi”) che le videro protagoniste e che più ebbero successo, dacchè Hitchcock inseguì anche quello commerciale, non volendo perdere i soldi che investiva nella ditta con la moglie.

   E il suo divagare negli interstizi di quei film è supportato da foto di scena che già da sole sono dotate di una loro emozionante dialettica.

   Un lavoro sontuoso, che ci riconcilia con la bellezza vera, la classe innata, il fascino oltre ogni format. In tempi di fintebionde volgari che oziano in tv da mane a sera e che, direbbe il regista, “esibiscono il proprio sesso al collo come un gioiello”.

   Un libro che non può mancare nella biblioteca non solo di un cinefilo militante, ma anche dei semplici, occasionali amanti della settima arte (quella che le contiene tutte).

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