di DOMENICO MACERI* – “Credo che il presidente della Corte Suprema abbia presieduto in maniera ammirevole”. Così Adam Schiff, il leader dei “manager” democratici al processo di impeachment di Donald Trump mentre difendeva John Roberts dalla domanda scomoda della senatrice Elizabeth Warren, democratica del Massachusetts. La Warren aveva chiesto se la poca fiducia degli americani sul governo con il rifiuto dei senatori repubblicani di permettere l’uso di testimoni mettesse in dubbio anche la legittimità di Roberts, della Corte Suprema e della Costituzione. La Warren mandava con la sua domanda una stoccata a Roberts il quale da presidente del processo poteva forzare la questione dei testimoni e costringere i senatori repubblicani a cedere. Roberts si è trovato in imbarazzo ma ha continuato nella sua condotta puramente formale, senza alcuna intenzione di prendere parte attiva al processo. Ha reiterato inoltre che in caso di un voto di parità lui non sarebbe intervenuto come tipicamente fa il vicepresidente degli Stati Uniti che funge da presidente del Senato, eccetto nel caso dell’impeachment.
La scomoda domanda di Warren ha messo alla luce la questione dell’indipendenza del Senato ma anche della legittimità delle altre istituzioni che nell’era di Trump sono state erose per i comportamenti e la politica dell’attuale inquilino della Casa Bianca. A cominciare dal Senato che ha votato per assolverlo senza fare uso di testimoni, condotto da Mitch McConnell, senatore del Kentucky e leader della maggioranza repubblicana, in completa sintonia con i desideri del presidente in carica, ossia l’imputato. Un processo di impeachment completamente di parte finito con l’assoluzione di Trump con 52 voti repubblicani contro 48 contrari (47 democratici e Mitt Romney, senatore dell’Utah, unico repubblicano). L’ombra del 45esimo presidente pesava sui senatori repubblicani, molti dei quali temono l’ira e il potere di Trump, concedendogli illimitata libertà di operare, senza contrappesi legali o etici.
L’influenza di Trump sul Senato e il suo partito però va oltre raggiungendo le altre istituzioni che con la sua politica e linguaggio fuori dalle righe continua a destabilizzare e sbilanciare per i suoi benefici personali e politici. La resistenza che si oppone ai feroci attacchi delle istituzioni di Trump continua a rimanere debolissima. Anche nei suoi attacchi al sistema giudiziario si sentono voci contrarie ma flebili da non avere l’effetto positivo necessario. Trump, per esempio, aveva attaccato persino Roberts nel 2016 quando gli ha addossato la responsabilità di Obamacare, la riforma sulla sanità dell’ex presidente Barack Obama. Va ricordato che il presidente della Corte Suprema aveva salvato l’Obamacare votando con i giudici liberal con un risultato di 5 a 4. Inoltre, nel mese di novembre dell’anno scorso, Trump aveva anche attaccato il giudice Jon Tigar per una sua decisione contraria sulla questione dell’immigrazione alla frontiera col Messico. Il 45esimo presidente aveva etichettato Tigar di essere un giudice di Obama. Il commento era eccessivo persino per il reticente Roberts il quale ha ribattuto che non esistono giudici di “Obama, di Trump, di Bush o di Clinton”, aggiungendo che i magistrati sono indipendenti a prescindere di chi li ha nominati.
Ma anche quando Trump controlla l’amministrazione e nomina i leader delle istituzioni gli attacchi continuano se non è completamente soddisfatto. Lo ha fatto con i suoi feroci attacchi a Jeff Sessions, nominato dal 45esimo presidente a procuratore generale nel 2017 ma licenziato l’anno dopo perché non aveva bloccato l’indagine di Russiagate. Prima del licenziamento però Trump lo aveva insultato in pubblico con tweet velenosi.
La Fbi è anche un’altra istituzione che Trump ha preso di mira con i suoi tweet. Paradossalmente le cose non sono cambiate dal suo punto di vista nonostante il fatto che i vertici dell’agenzia sono stati nominati dallo stesso Trump. In modo simile, l’attuale inquilino della Casa Bianca ha anche messo da parte i servizi di intelligence poiché non ha creduto la loro analisi secondo cui la Russia ha interferito nell’elezione americana del 2016.
Trump però va al di là delle istituzioni creando infatti alternative per condurre i suoi affari personali e politici come ci dimostra il caso di Rudy Giuliani, ex sindaco di New York, e in tempi recenti legale del presidente. Giuliani è stato coinvolto nelle ricerche di trovare informazioni negative su Joe Biden in Ucraina presentandosi non solo come rappresentante di Trump con i funzionari di questo governo europeo ma suggerendo anche di rappresentare ufficialmente gli Stati Uniti. Lo sappiamo infatti perché Trump nella sua telefonata al presidente ucraino Volodymyr Zelensky lo informa che dirà a Giuliani di telefonargli per la questione delle indagini su Biden. Perché Trump usava il suo avvocato personale per la politica diplomatica americana? Trump evidentemente non ha completa fiducia nelle istituzioni e nei suoi funzionari che lui spesso assume in maniera superficiale.
Trump in effetti fa di tutto per riformare le istituzioni a suo piacere poiché non crede al sistema che lui cerca di smantellare, conquistandosi campo libero con le proprie regole per i suoi scopi. Le istituzioni però esistono e continuano ad operare. Il Senato non lo ha condannato per la sua azione illegale sull’Ucrainagate. Nell’elezione di midterm del 2018 gli elettori lo hanno però “condannato”, consegnando la maggioranza della Camera ai democratici. Sarà “condannato” di nuovo nell’elezione di novembre di quest’anno?
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Domenico Maceri, PhD, è professore emerito all’Allan Hancock College, Santa Maria, California. Alcuni dei suoi articoli hanno vinto premi della National Association of Hispanic Publications.
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