di DOMENICO MACERI* – “Non piace a nessuno e nessuno vuole lavorare con lui”. Così Hillary Clinton in una recente intervista al Hollywood Reporter mentre commentava Bernie Sanders, il quale le diede filo da torcere nelle primarie democratiche del 2016. Adesso, la Clinton è in grande misura fuori dalla politica dopo essere stata sconfitta da Donald Trump nel 2016, ma la sua voce rimane sempre potente.
La Clinton sbaglia però come ci indicano le tre recenti primarie democratiche e i sondaggi nazionali che piazzano Sanders al primo posto per la nomination e l’eventuale sfida a Trump nel mese di novembre. Nel caucus dell’Iowa Sanders è arrivato secondo dopo Pete Buttigieg, ex sindaco di South Bend, Indiana, per quanto riguarda i delegati, ma primo nel voto popolare. Nel secondo test in New Hampshire Sanders è uscito vincitore e nel recentissimo caucus in Nevada la sua vittoria è stata schiacciante (46 per cento dei consensi). Inoltre il senatore indipendente del Vermont che adesso corre come democratico ha fatto notevoli progressi per le primarie del South Carolina tra gli afro-americani che dovrebbero essere la roccaforte di Joe Biden, il quale è in caduta libera. Che Sanders si sia già guadagnato il ruolo di “front-runner” (capolista) ce lo conferma l’ultimo dibattito nel quale è stato attaccato da quasi tutti gli altri sei avversari a Charleston pochi giorni prima delle primarie del South Carolina.
Gli attacchi sono emersi da tutti gli altri sei candidati, cinque centristi, e da Elizabeth Warren, caso a parte poiché lei auspica un’ideologia molto simile a quella di Sanders. Per i centristi preoccupa l’identificazione di Sanders con il socialismo e il suo linguaggio spesso colorato da termini come “rivoluzione” alle urne per potere mettere in pratica la sua agenda. Ciò include in sintesi aumenti alle tasse dei benestanti, Medicare for All (sanità nazionale per tutti), aumento del salario minimo a 15 dollari l’ora, università pubblica gratis, e una linea di politica internazionale che verte a sinistra. Costi troppo alti, secondo alcuni centristi come Buttigieg che ha definito l’agenda di Sanders come “castelli in aria”.
Le differenze di opinione con Sanders sono emerse dal fatto che solo la menzione del termine socialismo sarà un problema a novembre poiché Trump lo attaccherebbe ferocemente. Questa presa di posizione dimentica che l’attuale inquilino alla Casa Bianca attaccherebbe anche Madre Teresa se lei dovesse vincere la nomination del Partito Democratico. Un’accusa dunque senza fondamenta anche se, Paul Krugman, vincitore del Premio Nobel per l’economia e autorevole opinionista del New York Times, sostiene senza tutti i torti, che il termine socialista ingrandisce il bersaglio per gli assalti di Trump. Krugman riconosce che i giovani non sono spaventati dal termine socialismo ma reitera l’indispensabilità di voti dei meno giovani per il successo a novembre.
Sanders al dibattito di Charleston si è difeso reiterando che il suo uso di socialismo democratico non corrisponde a quello fallimentare immaginato dai centristi e della destra, ossia dell’Unione Sovietica o Venezuela, ma un tipo di socialismo democratico evidenziato nei Paesi Scandinavi. Si tratta di Paesi capitalisti con programmi sociali elaborati che temperano gli eccessi e gli abusi del capitalismo sfrenato, offrendo un tenore di vita più equanime alla società. Ha ragione, ovviamente, ma la paura che Sanders possa vincere la nomination e condurre il partito a una sconfitta alle presidenziali di novembre e di conseguenza anche della maggioranza nella legislatura è forte. I grandi donatori democratici rimangono dunque a bordo campo e non vogliono investire in caso di una vittoria di Sanders alle primarie. Da non dimenticare anche che Sanders non vuole niente a che fare con grossi contribuenti, preferendo giustamente piccole donazioni che fino ad adesso lo hanno supportato in maniera molto efficace con più di 130 milioni di dollari.
Gli attacchi a Sanders sono però anche venuti da “fuoco amico” rappresentati da Elizabeth Warren, senatrice del Massachusetts, la quale offre un programma politico molto simile a quello di Sanders. Esistono però alcune differenze di non poca importanza. La Warren non si è autodefinita socialista ma bensì capitalista, diminuendo un eventuale bersaglio ad attacchi della destra. Inoltre la senatrice si differenzia da Sanders nel fatto che il suo programma di sanità nazionale non aumenterebbe le tasse alla classe media come farebbe Sanders. Il senatore del Vermont ha fatto però notare che il suo piano costerebbe meno di quello attuale e coprirebbe tutti invece di lasciare 80 milioni di americani senza assicurazione medica o con copertura inefficace. La Warren dissente anche da Sanders sulla questione delle armi da fuoco, punto alquanto debole di Sanders il quale proviene da uno stato rurale, dove il possesso di armi da fuoco è popolare. Finalmente per quanto riguarda la questione di implementare l’agenda una volta conquistata la Casa Bianca, la Warren favorisce l’eliminazione del filibuster al Senato che richiede 2 terzi dei voti per fare approvare nuove leggi. Questa regola concede il potere a un’eventuale minoranza repubblicana di bloccare l’agenda di un presidente democratico. Sanders invece manterrebbe il filibuster poiché secondo lui la “rivoluzione” elettorale lo neutralizzerebbe.
Il fatto che Sanders si trovi al primo posto nei risultati e nei sondaggi nazionali ha avuto l’effetto di scrutini ampliati incluso le sue attività e dichiarazioni su alcuni aspetti positivi di dittatori come Fidel Castro. Ciò ovviamente presenta il rischio di dipingere Sanders come amante del sistema di Cuba e altri regimi autoritari di sinistra nonostante i chiarimenti del senatore del Vermont e le sue dovute distanze espresse categoricamente.
Le imminenti primarie in South Carolina e soprattutto quelle del Super Tuesday il 3 marzo con 14 Stati alle urne (40 percento della popolazione americana) potrebbero dare conferme sull’inevitabilità di Sanders vittorioso della nomination. In questo caso l’establishment del Partito Democratico dovrà sviluppare una strategia non solo per assistere Sanders ma di usare la sua efficacia politica al servizio degli altri candidati democratici nelle elezioni locali, statali e federali. Non sarà facile, ma nemmeno impossibile.
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Domenico Maceri, PhD, è professore emerito all’Allan Hancock College, Santa Maria, California. Alcuni dei suoi articoli hanno vinto premi della National Association of Hispanic Publications.
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